Continuo il filone degli alpinisti statunitensi parlando stavolta di Gary Hemming, una figura forse meno conosciuta di quanto meriterebbe ma che vale la pena di essere raccontata. Di Gareth (Gary) hanno scritto, già nel 1992, Mirella Tenderini, in uno splendido volume facente parte della collana “I licheni” edita da Vivalda Editore che resterà fonte autorevole della letteratura dell’alpinismo e più recentemente, nel 2023, in un bellissimo libro di Enrico Camanni (ma non c’erano dubbi. Un libro da bere d’un fiato) dal titolo “Se non dovessi tornare” edito da Mondadori Libri spa. Due libri bellissimi che consiglio sinceramente.

Gary fa parte di quel nocciolo di alpinisti californiani che seppero scrivere storie di ogni tipo ma soprattutto di alpinismo. Esprimo una breve introduzione limitata, sia chiaro, alle mie personali convinzioni e che, tuttavia, ritengo rilevante. In Europa, soprattutto nell’arco alpino, erano presenti, figli di quel periodo, alpinisti di altissimo rilievo, non ultimo quel Walter Bonatti che è stato per me il più grande. Alpinisti che si proposero all’attenzione pubblica in modo incancellabile realizzando imprese che avevano, ed hanno, dell’incredibile. Leggende quindi che, a mio modo di vedere, non sono né peggiori né migliori della realtà californiana, non è questo il punto. Eppure intorno agli anni 60 il commento più indulgente che in Europa stigmatizzava il modo di agire dei primi alpinisti giunti da oltre oceano era, secondo me, sintomo di una certa cultura ricca di presunzione, legata a certi stereotipi centenari derivanti da un vecchio tipo di mentalità creatasi e sviluppatasi, in buona parte, in seno ai più vecchi Club Alpini europei. L’opinione ricorrente, derivante anche dalle occasionali notizie che arrivavano dagli Stati Uniti, era che i californiani arrampicassero bene … certo, ma al sole della California al netto di tutti quei tipici problemi legati all’ambiente alpino. Beh … quando decisero di scendere nel Gruppo del Monte Bianco, e non solo, fecero capire a tutti che non era una questione di quote, temperature e condizioni. Aprirono vie divenute incancellabili come, fra le più rinomate, una diretta e una direttissima al Petit Dru e una prima ascensione all’Aiguille del Fou che ancora oggi è meta certamente ambita ma anche ricca di ostacoli e imprevisti. In altre parole, dimostrarono al mondo come non sapessero arrampicare solo al sole della Yosemite ma anche in condizioni problematiche a quote importanti peraltro a loro sconosciute. Nella diretta al Petit Dru e all’Aiguille del Fou è fondamentale la presenza di Gary Hemming.

Gary giunge in Europa nel 1960 insieme all’amico John Harlin. Sono una coppia inossidabile anche se animati da differenti filosofie di vita. Collezionano tutta una serie di salite di riguardo, sono peraltro testimoni diretti della tragedia al Pilone Centrale del 1961 dove si offrono di aiutare (senza fortuna) i soccorritori (ci sarà modo di parlare della famosa corda lasciata al Colle dell’Innominata dai due americani), Gary in particolare proverà ad iscriversi, nel 1962, al Corso dell’E.N.S.A. (l’École Nationale de Ski et d’Alpinisme, la scuola che addestra le Guide francesi) al quale non sarà ammesso. Non solo perché la lunghezza dei capelli e della barba così come lo stile di vita è ritenuto eccessivo ma anche per un motivo, non dichiarato ovviamente eppure concreto, che rispondeva al rito dell’appartenenza. Gary non era francese e tantomeno un valligiano.

Nel 1962 giunge a Chamonix quel Royal Robbins considerato il più energico antagonista, in Yosemite, di Warren Harding (ne ho già parlato). Royal predilige un’arrampicata “pulita”, è in forte anticipo sui tempi, soprattutto quelli europei, questo il motivo per cui va d’accordo con Gary pur essendo, nella concezione della vita terrena, persona completamente diversa. A fine luglio 1962 (24-26 luglio) apriranno quella meglio definita come la “Diretta Americana” alla parete ovest del Petit Dru. Una via che termina al “bloc coincé” (masso incastrato) dove si ricongiunge con la via, aperta nel 1952 da Guido Magnone, Lucien Berardini e Adrien Dagory, dove inizia il famosissimo diedro di 90 mt. così ben raccontato da Christophe Profit nel cortometraggio “les Drus en solo” (potete trovarlo su https://www.youtube.com/watch?v=5K4H__m1QDs). Ad essere cattivi, e mi ci metto anch’io, molti la considerano una variante d’attacco alla via di Magnone anche se, indubbiamente, si tratta di un’incredibile performance, più “direct” è impossibile. Nel 1965, sempre alla ovest del Petit Dru, Royal Robbins, stavolta in coppia con John Harlin, aprirà anche quella via, stavolta sì, che prenderà il nome di “Direttissima Americana”. Nel frattempo, nel 1963, Gary Hemming insieme a Tom Frost (uno dei migliori interpreti, in assoluto, della progressione artificiale), John Harlin e Stuart Fulton avevano aperto un’improbabile via alla sud dell’Aiguille du Fou. John Harlin morirà nel marzo 1966 nel tentativo di aprire una direttissima alla parete nord dell’Eiger, una via che oggi porta il suo nome.

Tuttavia …. se c’è un episodio per il quale Hemming è ricordato è il soccorso portato a una cordata di due ragazzi tedeschi (Hermann Schriddel e Heinz Ramisch) bloccati proprio sulla ovest del Petit Dru all’altezza del famoso diedro. Corre l’anno 1966, il mese è quello di agosto, i soccorsi tardano ad organizzarsi. Gary prova senza successo a muovere le acque ma sarà sconfitto. Deciso a soccorrere i due ragazzi (hanno meno di 50 anni in due) mette insieme una squadra di amici, fra i quali François Guillot, talento puro dell’arrampicata, e l’inglese Mick Burke, che già in un’occasione si è dovuto calare lungo il diedro non molto tempo prima. Si aggregherà al gruppo, di sua spontanea volontà, anche René Desmaison, alpinista che vantava già grande fama. Fu un salvataggio complesso, un salvataggio che richiese tutto il repertorio di “mestiere” dei soccorritori, eppure un salvataggio portato a buon fine. Molte furono le polemiche. Disse in un’intervista Guillot: “A quel tempo scendere in corda doppia da una parete alta 900 metri era qualcosa di enorme. E sicuramente per Desmaison, e anche per Gary, era una questione di orgoglio”. Proprio Enrico Camanni scrisse sul quotidiano La Stampa di Torino in data 25 agosto 2016: “Il funambolico salvataggio del Petit Dru è un sorprendente anticipo del Sessantotto che verrà: autorità e principio dell’ubbidienza da un lato; anarchia, creatività e disubbidienza dall’altro. Chi è troppo vecchio per capire i giovani, chi è troppo giovane per sopportare i vecchi. Anche il teatro della vicenda ha qualcosa di eversivo, perché gli scudi granitici dell’Aiguille du Dru incarnano la ribellione della materia alla legge di gravità” (Petit Dru, dove osano gli angeli ribelli).

Gary ne uscì come un eroe agli occhi dell’opinione pubblica. Non poteva sapere che l’alpinismo, per lui, era finito. Racconta Tom Frost che “i suoi limiti erano personali, non fisici. Semplicemente non era una personalità così stabile”. Gary era un uomo fragilissimo, ostaggio di se stesso nonostante rilasciasse interviste dove sosteneva che “la montagna è un’iniziazione che si rinnova ogni anno. Ci vai, ti metti alla prova, ti ritrovi. In seguito, sei più in grado di accettare te stesso”. Forse non accettò mai, non tanto se stesso, quanto il mondo e la società che lo circondava. Ancora nel 1964 aveva scritto per l’illustre rivista La Montagne et Alpinisme un articolo dal nome “A la recherche d’un équilibre”. Un equilibrio che forse non ha mai trovato dentro se stesso nonostante fosse estremamente intelligente.

Dopo un certo periodo a Parigi, speso nel tentativo di scrivere un libro che trattasse l’alpinismo californiano, tornò negli Stati Uniti non prima di aver tentato, per ben due volte, una solitaria al Petit Dru senza riuscire a concluderla. Gary ci ha lasciati nell’agosto del 1969 sparandosi un colpo di rivoltella alla tempia. Dopo una serata furiosa, ricca di liti fu trovato morto sul sentiero che porta al Lago Jenny nel Parco Nazionale dei Teton nel Wyoming dove contava molti amici. Un luogo che conosceva bene.

Per quelli della mia generazione (uff …), quelli che come me, in quegli anni, giovanissimi, cercavano risposte dalla montagna e dal mondo civile, per tutti noi Gareth, figlio di un gangster e di una santa, come diceva Lui, rimarrà un mito ineguagliabile. Ciao Gary …

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